lunedì 27 luglio 2015

UN MOSTRUOSO ABBRACCIO MORTALE

  Nel momento in cui Ferdinando Carretta torna definitivamente  libero, dopo quasi otto anni di internamento nell'ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere e altri nove in libertà vigilata in una comunità nei pressi di Forlì (provvedimenti conseguenti alla sentenza emessa il 15 novembre 1999 dalla Corte d'Assise di Parma che lo ha ritenuto autore della uccisione il 4 agosto 1989 del padre, della madre e del fratello, assolvendolo, però, perché incapace di intendere e di volere), ripropongo il mio articolo, pubblicato sul Giornale di Parma il 10 novembre 1999, dopo la prima udienze del processo. Articolo che costrinse il presidente della Corte d'Assise Piscopo a chiamare a testimoniare Giuseppe  Zavaroni, incredibilmente escluso dal Pm Brancaccio dalla lista dei testi poiché rappresentava l'unico ostacolo alla "verità" che si voleva rappresentare con quella inverosimile pagliacciata tele - giudiziaria. Dopo oltre tre lustri mentre Ferdinando torna libero di godersi il frutto della strage (la sua riapparizione immediatamente prima di essere dichiarato "morto presunto" e la sua strategia processuale finalizzata alla assoluzione per incapacità di intendere e di volere fanno pensare che tutto fosse, tranne che matto), cioè l'eredità dei suoi familiari assassinati, rimangono tutti gli interrogativi. Primo fra tutti: dove sono i tre cadaveri visto che almeno quella di averli sepolti nella discarica di Viarolo era una balla? Perché,  dopo aver tolto loro la vita, vuole negare ad essi anche una cristiana sepoltura?  
  Incredibile. Assurdo. Allucinante. Sconvolgente. In tribunale, a Parma, nell’aula delle udienze penali, avanti a due magistrati togati e a sei giudici popolari, è stata allestita una delle rappresentazioni giudiziarie più mostruose mai viste in Italia. Una mostruosa messa in scena che non prevede, però, la esibizione del “mostro”, inventato e creato un anno fa e ora tenuto prudentemente nascosto, forse per evitare che possa difendersi e cercare di liberarsi da quella gabbia infernale che gli hanno costruito addosso.
Sto parlando, naturalmente, del dibattimento in corte d’assise  a carico di Ferdinando Carretta, accusato del triplice omicidio premeditato del padre, della madre e del fratello. Un processo che esprime una abnormità giuridica mai vista prima. La difesa (un avvocato romano che si sussurra sia pagato dalla Rai) e la pubblica accusa incredibilmente abbracciati nella stessa strategia processuale: cercare di far credere alla giuria popolare che Ferdinando è “il mostro”. Che è stato lui, senza ombra di dubbio, a sterminare la sua famiglia. Con un’arma, poco più che un giocattolo, che, ha dichiarato in aula l’armaiolo che l’ha venduta, non aveva nemmeno la potenza necessaria per forare un cappotto. Per loro, accusa e difesa congiunte, è certo che Ferdinando ha fatto questo massacro. Egli, però, è colpevole ma non punibile perché è un folle incapace di intendere e di volere.
Vi saranno delle prove schiaccianti che inchiodano Ferdinando a questo ruolo di “mostro” per suggerire una strategia difensiva così al limite del suicidio, penserete voi. No, nemmeno una prova. Non ne hanno trovato nemmeno una. “Senza la sua confessione”, ha ammesso l’avvocato difensore Dinacci nel corso della prima udienza, “questo processo non si sarebbe nemmeno celebrato, perché vi è una strage che non è basata su nulla, non essendo stati trovati né i cadaveri, né l’arma del delitto, né il movente”. Anzi, il movente c’è, ha spiegato l’avvocato romano, e va ricercato nella follia di Ferdinando Carretta. Una tesi folle, a sua volta, aberrante, se consideriamo che viene  teorizzata da un avvocato che anziché perseguire una assoluzione piena per l’imputato Ferdinando, sta cercando di aprirgli invece le porte del manicomio giudiziario per una decina di anni.
Ma dove sono andate a finire tutte quelle prove sbandierate dal maresciallo Manoli, dal pubblico ministero  dottor Brancaccio e dalla Gazzetta di Parma? Tutte quelle “prove” che avevano spinto il direttore del giornale degli industriali ad affermare categoricamente il 30 novembre 1998: “Ferdinandoè un assassino”. Dove sono andate a finire? E tutte quelle altre che ogni giorno lo stesso quotidiano tirava fuori dalla discarica di Viarolo, dove l’unica cosa certa era invece che si sotterravano centinaia di milioni di lire del contribuente?
E vi ricordate la buffonata di quella gocciolina di sangue misto che Gazzetta e company avevano sbandierato come madre di tutte le prove perché addirittura in essa era confluito il dna di tutti gli assassinati? Adesso che siamo al dunque, davanti a una giuria popolare, di tutta questa pagliacciata non è rimasto nulla. Niente di niente.
La cosa più incredibile, però, è che dopo essersi reso conto che la pubblica accusa non ha nulla in mano per attribuire una strage a Ferdinando, l’avvocato difensore del Carretta, anziché fregarsi le mani e approfittare di questa situazione che porterebbe dritto dritto il suo assistito ad una assoluzione piena, per non aver commesso il fatto, continua ad andare avanti sulla strada già tracciata. E si unisce al Pm Brancaccio nel sostenere un teorema accusatorio che fa acqua da tutte le parti, limitandosi a chiedere la non punibilità del “mostro” per incapacità di intendere e di volere al momento del confessato famiglicidio.
L’avvocato difensore non ha dubbi. Proprio come Brancaccio è sicuro che Ferdinando è quel mostro che ha sterminato la sua famiglia. E’ un mostro perché ha confessato di esserlo. Una confessione tanto più sicura perché è stata trasmessa in diretta televisiva. Perché mai si dovrebbe rimettere in discussione ora quell’agghiacciante documento filmato? Nei confronti di una “verità” televisiva, cosa possono valere i principi giuridici vigenti in tutti gli stati di diritto dopo l’abolizione della Santa Inquisizione che affermano solennemente che le auto accuse non valgono una cicca se non supportate da riscontri oggettivi?
Sarebbe proprio un gioco da ragazzi smontarla pezzo per pezzo quella confessione. Ci riuscirebbe un qualsiasi avvocatucolo anche di primo pelo. Ma invece deve essere tenuta ferma, immutabile. E’ l’unica prova che ha in mano la pubblica accusa, è la ragion d’essere di questo processo. Non si ritiene necessario nemmeno chiamare Ferdinando in aula a ripeterla, parola per parola, davanti ai suoi giudici. Si teme forse che non se la ricordi più? O si teme forse che gli torni in mente la sua prima versione dei fatti, quella raccontata agli inquirenti a Londra, nel primo interrogatorio? Quando disse che lui è i suoi famigliari erano partiti col camper tutti insieme e che erano stati prima in Liguria e poi a Milano dove, dopo avere abbandonato il mezzo, in treno si erano recati in Svizzera per poi raggiungere, sempre tutti insieme e tutti vivi Londra? Si teme questo forse? Che torni a raccontare la verità? Una verità che, per di più, trova un impressionante riscontro nelle clamorose dichiarazioni al nostro giornale di Giuseppe Zavaroni, il quale è pronto a giurare davanti alla Corte d’Assise di avere ospitato l’intera famiglia Carretta nel suo ristorante di Sarzana, in Liguria, quindi, la prima domenica di agosto, quando cioè la strage era stata già consumata.
E’ pronto a giurarlo in corte d’assise Giuseppe Zavaroni, lo ha detto anche alla polizia. Ma non può farlo perché nessuno ha pensato di convocarlo.
Perché mai turbare l’idilliaca strategia dell’accusa e della difesa, avvinghiate nel loro amplesso contro natura, con questo supertestimone che mette in crisi la confessione di Ferdinando, cioè la “madre di tutte le prove” di questo processo?
19 maggio 2015

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